Il Comitato per il Parco del Monte Canto e del Bedesco, in collaborazione con le Associazioni della Protezione Civile dell'Isola, la Sede Territoriale Ente Regione (STER) di Bergamo e con il patrocinio della Comunità dell'Isola, organizza ad Ambivere una serata dal tema UN RAGGIO DI SOLIDARIETA' E UNA RIFLESSIONE SUI RISCHI DEL MONTE CANTO.
Partendo dalla recente alluvione che ha colpito la Liguria, dove i gruppi della Protezione Civile della provincia di Bergamo hanno portato la loro preziosa opera di soccorso, il Comitato ha deciso di promuovere un'iniziativa di solidarietà, ma allo stesso tempo ritiene utili aprire un dibattito sui rischi di tipo idrogeologico per la nostra zona e in particolare quella del Monte Canto.
La serata, che avrà luogo VENERDI' 3 FEBBRAIO alle ore 20.45 presso la Sala Civica di Ambivere in via Cesare Battisti 5, prevede il seguente programma:
Presentazione dell'evento: Rosario Magnolo, Comitatomontecanto
Saluto del Presidente della Comunità dell'Isola: Silvano Danadoni
Un documento dell'intervento in Liguria: Stefano Fantoni, ANA Bergamo
Un filmato sul Borgo del Canto: Andrea Corbetta, Comitatomontecanto
Rischi idrogeologici del M. Canto: Michele Gargantini, STER di Bergamo
Domande, conclusione e assaggio di un piccolo prodotto del Monte Canto.
Siamo tutti invitati a partecipare numerosi!
martedì 31 gennaio 2012
venerdì 27 gennaio 2012
Tra le baracche di Auschwitz, lo zingaro.
Alla porta della baracca era affisso un avviso e tutti si pigiavano per leggerlo: era scritto in tedesco e in polacco, un prigioniero francese, stretto fra la folla e la parete di legno, si affannava a tradurlo e a commentarlo. L’avviso diceva che, in via eccezionale, era consentito a tutti i prigionieri di scrivere ai parenti, sotto condizioni che venivano minutamente precisate secondo l’uso tedesco.
Si poteva scrivere solo su moduli che ogni capo-baracca avrebbe distribuito, uno per ogni prigioniero. L’unica lingua ammessa era il tedesco. Gli unici destinatari ammessi erano quelli che risiedevano in Germania o nei territori occupati o in Paesi alleati come l’Italia. Non era permesso chiedere l’invio di pacchi-viveri ma era permesso ringraziare dei pacchi eventualmente ricevuti. A questo punto il francese esclamò energicamente «Les salauds, hein!» e si interruppe.
Il fracasso e l’affollamento crebbero e ci fu un confuso scambio di opinioni in diverse lingue. Chi mai aveva ricevuto un pacco o anche solo una lettera? E del resto chi conosceva il nostro indirizzo, posto che «KZ Auschwitz» fosse un indirizzo? E a chi avremmo potuto scrivere, dal momento che tutti i nostri parenti erano prigionieri in qualche Lager come noi o morti o nascosti qua e là in tutti gli angoli dell’Europa nel terrore di seguire il nostro destino?
Chiaro, era un trucco, le lettere di ringraziamento col bollo postale di Auschwitz sarebbero state mostrate alla delegazione della Croce Rossa o a chissà quale altra autorità neutrale, per dimostrare che gli ebrei di Auschwitz non erano poi trattati così male, dal momento che ricevevano pacchi da casa. Una bugia immonda.
Si formarono tre partiti: non scrivere affatto; scrivere senza ringraziare; scrivere e ringraziare. I partigiani di quest’ultima tesi (pochi, in verità) sostenevano che la faccenda della Croce Rossa era verosimile ma non certa e che sussisteva una probabilità, per quanto piccola, che le lettere arrivassero a destinazione e che il ringraziamento fosse interpretato come un invito ad inviare pacchi. Io decisi di scrivere senza ringraziare, indirizzando ad amici cristiani che in qualche modo avrebbero trovato la mia famiglia. Mi feci imprestare un mozzicone di matita, ottenni il modulo e mi accinsi al lavoro.
Scrissi dapprima una minuta su un brandello di carta da cemento, la stessa che portavo sul petto (illegalmente) per difendermi dal vento, poi incominciai a riportare il testo sul modulo ma provavo disagio. Mi sentivo, per la prima volta dopo la cattura, in comunicazione e comunione (anche se solo putativa) con la mia famiglia e perciò avrei avuto bisogno di solitudine ma la solitudine, in Lager, è più preziosa e rara del pane.
Provavo l’impressione fastidiosa che qualcuno mi osservasse. Mi voltai: era il mio nuovo compagno di letto. Stava tranquillo a guardarmi mentre scrivevo, con la fissità innocente ma provocatoria dei bambini che non conoscono il pudore dello sguardo. Era arrivato da poche settimane con un trasporto di ungheresi e di slovacchi: era molto giovane, snello e bruno, ed io non sapevo niente di lui, neppure il nome, perché lavorava in una squadra diversa dalla mia e veniva in cuccetta a dormire solo al momento del coprifuoco.
Fra noi, il sentimento della camaraderie era scarso: si limitava ai compatrioti ed anche verso di loro era indebolito dalle condizioni di vita minimali. Era poi nullo, anzi negativo, nei riguardi dei nuovi venuti: sotto questo e sotto molti altri aspetti eravamo fortemente regrediti ed induriti, nel compagno «nuovo» tendevamo a vedere un estraneo, un barbaro goffo ed ingombrante che portava via spazio, tempo, pane e che non conosceva le regole taciute ma ferree della convivenza e della sopravvivenza; per di più si lamenta e si lamenta a torto, in un modo irritante e ridicolo, perché pochi giorni fa era ancora a casa sua o almeno fuori dal filo spinato.
Il nuovo ha una sola virtù: porta notizie recenti dal mondo, perché ha letto i giornali ed ha sentito la radio, forse perfino le radio alleate. Ma se le notizie sono cattive, per esempio che la guerra non finirà fra due settimane, non è altro che un importuno da evitare o da deridere per la sua ignoranza o da sottoporre a scherzi crudeli.
Quel nuovo alle mie spalle invece, benché mi stesse spiando, suscitava in me una vaga impressione di pietà. Sembrava inerme e disorientato, bisognoso di sostegno come un bambino; certo non aveva colto l’importanza della scelta da farsi, se scrivere e che cosa scrivere, e non provava né tensione né sospetto. Gli voltai la schiena, in modo da impedirgli di vedere il mio foglio e continuai nel mio lavoro che non era agevole. Si trattava di pesare ogni parola, affinché trasferisse il massimo di informazione all’improbabile destinatario, ed insieme non apparisse sospetta al probabile censore. Il fatto di dover scrivere in tedesco accresceva la difficoltà: il tedesco lo avevo imparato in Lager e riproduceva, senza che io lo immaginassi, il gergo volgare e povero delle caserme. Ignoravo molti termini, in specie proprio quelli che occorrono per esprimere i sentimenti. Mi sentivo inetto come se quella lettera avessi dovuto scalpellarla sulla pietra.
Il vicino attese con pazienza che io avessi finito, poi mi disse qualcosa in una lingua che non comprendevo. Gli chiesi in tedesco che cosa voleva, lui mi mostro il suo modulo che era bianco e indicò il mio coperto di scrittura: mi chiedeva insomma di scrivere per lui. Doveva aver capito che io ero italiano ed a chiarire meglio la sua richiesta mi fece un discorso arruffato in un linguaggio sommario che in effetti era assai più spagnolo che italiano. Non solo non sapeva scrivere in tedesco, non sapeva scrivere affatto. Era uno zingaro, era nato in Spagna e aveva poi girato la Germania, l’Austria e i Balcani per cadere in Ungheria nelle reti dei nazisti. Si presentò compitamente: Grigo, si chiamava Grigo, aveva diciannove anni e mi pregava di scrivere alla sua fidanzata. Mi avrebbe compensato. Con che cosa? Con un dono, rispose lui senza precisare. Io gli chiesi del pane: mezza razione, mi sembrava un prezzo equo. Oggi mi vergogno un poco di questa mia richiesta ma devo ricordare al lettore (ed a me stesso) che il galateo di Auschwitz era diverso dal nostro e inoltre che Grigo, essendo arrivato da poco, era meno affamato di me.
Infatti accettò. Io tesi la mano verso il suo modulo ma lui lo ritirò e mi porse invece un altro brandello di carta: era una lettera importante, era meglio stendere una minuta. Incomincio a dettarmi l’indirizzo della ragazza. Doveva aver colto un moto di curiosità, o forse d’invidia, nei miei occhi, perché cavò dal petto una fotografia e me la mostrò con orgoglio: era quasi una bambina, dagli occhi ridenti, con accanto un gattino bianco. La mia stima per lo zingaro crebbe, non era facile entrare in Lager nascondendo una fotografia. Grigo, quasi che occorresse giustificarsi, mi precisò che non l’aveva scelta lui, bensì suo padre. Era una fidanzata ufficiale, non una ragazza rapita alla maniera spiccia.
La lettera che mi dettò era una complicata lettera d’amore e di dettagli domestici. Conteneva domande il cui senso mi sfuggiva e notizie sul Lager che consigliai a Grigo di omettere perché troppo compromettenti. Grigo insistette su un punto: voleva annunciare alla ragazza che lui le avrebbe mandato una «mugneca» Una mugneca? Sì, una bambola, mi spiegò Grigo nel suo meglio.
La faccenda mi imbarazzava per due motivi, perché non sapevo come si dice «bambola» in tedesco e perché non riuscivo ad immaginare per quale motivo e in che modo Grigo volesse o dovesse impegnarsi in questa operazione pericolosa e insensata. Mi sembrava doveroso spiegarli tutto questo: avevo più esperienza di lui e mi pareva che la mia condizione di scrivano mi conferisse qualche obbligo.
Grigo mi regalò un sorriso disarmante, un sorriso da “nuovo” ma non mi spiegò molto, non so se per sua incapacità o per l’attrito linguistico o per volontà precisa. Mi disse che la bambola doveva mandarla assolutamente. Che trovarla non era un problema: l’avrebbe fabbricata sul posto e mi mostro un bel coltellino a serramanico; no, questo Grigo non doveva proprio esser uno sprovveduto, ancora una volta fui costretto ad ammirarlo. Doveva essere stato ben sveglio all’ingresso in Lager, quando ti tolgono tutto quanto hai addosso, perfino il fazzoletto ed i capelli. Forse lui non se ne rendeva conto ma un coltello come il suo valeva almeno cinque razioni di pane.
Mi chiese di indicargli se da qualche parte c’era un albero da cui si potesse tagliare un ramo, perché era meglio se la bambola fosse stata fatta «de madera viva», con legno vivo. Cercai ancora di dissuaderlo scendendo sul suo terreno: alberi non ce n’erano e del resto mandare alla ragazza una bambola fatta con legno di Auschwitz non era come chiamarla qui? Ma Grigo alzò le sopraciglia con aria misteriosa, si toccò il naso con l’indice e mi disse che caso mai era tutto il contrario: la bambola avrebbe chiamato fuori lui, la ragazza sapeva come fare.
Quando la lettera fu finita, Grigo cavò fuori una razione di pane e me la porse insieme con il coltellino. Era usanza, anzi legge non scritta, che in tutti i pagamenti a base di pane fosse uno dei contraenti a tagliare il pane e l’altro a scegliere, poiché così il tagliatore era indotto a fare porzioni il più possibile uguali. Mi stupii che Grigo già conoscesse la regola ma poi pensai che essa era forse in vigore anche fuori del Lager, nel mondo a me sconosciuto da cui Grigo proveniva. Tagliai e lui mi lodò cavallerescamente: che le due mezze razione fossero identiche era suo danno ma avevo tagliato bene, niente da dire.
Mi ringraziò e non lo rividi mai più. Non occorre aggiungere che nessuna delle lettere che scrivemmo quel giorno giunse mai a destinazione.
( Primo Levi )
per non dimenticare ....
Si poteva scrivere solo su moduli che ogni capo-baracca avrebbe distribuito, uno per ogni prigioniero. L’unica lingua ammessa era il tedesco. Gli unici destinatari ammessi erano quelli che risiedevano in Germania o nei territori occupati o in Paesi alleati come l’Italia. Non era permesso chiedere l’invio di pacchi-viveri ma era permesso ringraziare dei pacchi eventualmente ricevuti. A questo punto il francese esclamò energicamente «Les salauds, hein!» e si interruppe.
Il fracasso e l’affollamento crebbero e ci fu un confuso scambio di opinioni in diverse lingue. Chi mai aveva ricevuto un pacco o anche solo una lettera? E del resto chi conosceva il nostro indirizzo, posto che «KZ Auschwitz» fosse un indirizzo? E a chi avremmo potuto scrivere, dal momento che tutti i nostri parenti erano prigionieri in qualche Lager come noi o morti o nascosti qua e là in tutti gli angoli dell’Europa nel terrore di seguire il nostro destino?
Chiaro, era un trucco, le lettere di ringraziamento col bollo postale di Auschwitz sarebbero state mostrate alla delegazione della Croce Rossa o a chissà quale altra autorità neutrale, per dimostrare che gli ebrei di Auschwitz non erano poi trattati così male, dal momento che ricevevano pacchi da casa. Una bugia immonda.
Si formarono tre partiti: non scrivere affatto; scrivere senza ringraziare; scrivere e ringraziare. I partigiani di quest’ultima tesi (pochi, in verità) sostenevano che la faccenda della Croce Rossa era verosimile ma non certa e che sussisteva una probabilità, per quanto piccola, che le lettere arrivassero a destinazione e che il ringraziamento fosse interpretato come un invito ad inviare pacchi. Io decisi di scrivere senza ringraziare, indirizzando ad amici cristiani che in qualche modo avrebbero trovato la mia famiglia. Mi feci imprestare un mozzicone di matita, ottenni il modulo e mi accinsi al lavoro.
Scrissi dapprima una minuta su un brandello di carta da cemento, la stessa che portavo sul petto (illegalmente) per difendermi dal vento, poi incominciai a riportare il testo sul modulo ma provavo disagio. Mi sentivo, per la prima volta dopo la cattura, in comunicazione e comunione (anche se solo putativa) con la mia famiglia e perciò avrei avuto bisogno di solitudine ma la solitudine, in Lager, è più preziosa e rara del pane.
Provavo l’impressione fastidiosa che qualcuno mi osservasse. Mi voltai: era il mio nuovo compagno di letto. Stava tranquillo a guardarmi mentre scrivevo, con la fissità innocente ma provocatoria dei bambini che non conoscono il pudore dello sguardo. Era arrivato da poche settimane con un trasporto di ungheresi e di slovacchi: era molto giovane, snello e bruno, ed io non sapevo niente di lui, neppure il nome, perché lavorava in una squadra diversa dalla mia e veniva in cuccetta a dormire solo al momento del coprifuoco.
Fra noi, il sentimento della camaraderie era scarso: si limitava ai compatrioti ed anche verso di loro era indebolito dalle condizioni di vita minimali. Era poi nullo, anzi negativo, nei riguardi dei nuovi venuti: sotto questo e sotto molti altri aspetti eravamo fortemente regrediti ed induriti, nel compagno «nuovo» tendevamo a vedere un estraneo, un barbaro goffo ed ingombrante che portava via spazio, tempo, pane e che non conosceva le regole taciute ma ferree della convivenza e della sopravvivenza; per di più si lamenta e si lamenta a torto, in un modo irritante e ridicolo, perché pochi giorni fa era ancora a casa sua o almeno fuori dal filo spinato.
Il nuovo ha una sola virtù: porta notizie recenti dal mondo, perché ha letto i giornali ed ha sentito la radio, forse perfino le radio alleate. Ma se le notizie sono cattive, per esempio che la guerra non finirà fra due settimane, non è altro che un importuno da evitare o da deridere per la sua ignoranza o da sottoporre a scherzi crudeli.
Quel nuovo alle mie spalle invece, benché mi stesse spiando, suscitava in me una vaga impressione di pietà. Sembrava inerme e disorientato, bisognoso di sostegno come un bambino; certo non aveva colto l’importanza della scelta da farsi, se scrivere e che cosa scrivere, e non provava né tensione né sospetto. Gli voltai la schiena, in modo da impedirgli di vedere il mio foglio e continuai nel mio lavoro che non era agevole. Si trattava di pesare ogni parola, affinché trasferisse il massimo di informazione all’improbabile destinatario, ed insieme non apparisse sospetta al probabile censore. Il fatto di dover scrivere in tedesco accresceva la difficoltà: il tedesco lo avevo imparato in Lager e riproduceva, senza che io lo immaginassi, il gergo volgare e povero delle caserme. Ignoravo molti termini, in specie proprio quelli che occorrono per esprimere i sentimenti. Mi sentivo inetto come se quella lettera avessi dovuto scalpellarla sulla pietra.
Il vicino attese con pazienza che io avessi finito, poi mi disse qualcosa in una lingua che non comprendevo. Gli chiesi in tedesco che cosa voleva, lui mi mostro il suo modulo che era bianco e indicò il mio coperto di scrittura: mi chiedeva insomma di scrivere per lui. Doveva aver capito che io ero italiano ed a chiarire meglio la sua richiesta mi fece un discorso arruffato in un linguaggio sommario che in effetti era assai più spagnolo che italiano. Non solo non sapeva scrivere in tedesco, non sapeva scrivere affatto. Era uno zingaro, era nato in Spagna e aveva poi girato la Germania, l’Austria e i Balcani per cadere in Ungheria nelle reti dei nazisti. Si presentò compitamente: Grigo, si chiamava Grigo, aveva diciannove anni e mi pregava di scrivere alla sua fidanzata. Mi avrebbe compensato. Con che cosa? Con un dono, rispose lui senza precisare. Io gli chiesi del pane: mezza razione, mi sembrava un prezzo equo. Oggi mi vergogno un poco di questa mia richiesta ma devo ricordare al lettore (ed a me stesso) che il galateo di Auschwitz era diverso dal nostro e inoltre che Grigo, essendo arrivato da poco, era meno affamato di me.
Infatti accettò. Io tesi la mano verso il suo modulo ma lui lo ritirò e mi porse invece un altro brandello di carta: era una lettera importante, era meglio stendere una minuta. Incomincio a dettarmi l’indirizzo della ragazza. Doveva aver colto un moto di curiosità, o forse d’invidia, nei miei occhi, perché cavò dal petto una fotografia e me la mostrò con orgoglio: era quasi una bambina, dagli occhi ridenti, con accanto un gattino bianco. La mia stima per lo zingaro crebbe, non era facile entrare in Lager nascondendo una fotografia. Grigo, quasi che occorresse giustificarsi, mi precisò che non l’aveva scelta lui, bensì suo padre. Era una fidanzata ufficiale, non una ragazza rapita alla maniera spiccia.
La lettera che mi dettò era una complicata lettera d’amore e di dettagli domestici. Conteneva domande il cui senso mi sfuggiva e notizie sul Lager che consigliai a Grigo di omettere perché troppo compromettenti. Grigo insistette su un punto: voleva annunciare alla ragazza che lui le avrebbe mandato una «mugneca» Una mugneca? Sì, una bambola, mi spiegò Grigo nel suo meglio.
La faccenda mi imbarazzava per due motivi, perché non sapevo come si dice «bambola» in tedesco e perché non riuscivo ad immaginare per quale motivo e in che modo Grigo volesse o dovesse impegnarsi in questa operazione pericolosa e insensata. Mi sembrava doveroso spiegarli tutto questo: avevo più esperienza di lui e mi pareva che la mia condizione di scrivano mi conferisse qualche obbligo.
Grigo mi regalò un sorriso disarmante, un sorriso da “nuovo” ma non mi spiegò molto, non so se per sua incapacità o per l’attrito linguistico o per volontà precisa. Mi disse che la bambola doveva mandarla assolutamente. Che trovarla non era un problema: l’avrebbe fabbricata sul posto e mi mostro un bel coltellino a serramanico; no, questo Grigo non doveva proprio esser uno sprovveduto, ancora una volta fui costretto ad ammirarlo. Doveva essere stato ben sveglio all’ingresso in Lager, quando ti tolgono tutto quanto hai addosso, perfino il fazzoletto ed i capelli. Forse lui non se ne rendeva conto ma un coltello come il suo valeva almeno cinque razioni di pane.
Mi chiese di indicargli se da qualche parte c’era un albero da cui si potesse tagliare un ramo, perché era meglio se la bambola fosse stata fatta «de madera viva», con legno vivo. Cercai ancora di dissuaderlo scendendo sul suo terreno: alberi non ce n’erano e del resto mandare alla ragazza una bambola fatta con legno di Auschwitz non era come chiamarla qui? Ma Grigo alzò le sopraciglia con aria misteriosa, si toccò il naso con l’indice e mi disse che caso mai era tutto il contrario: la bambola avrebbe chiamato fuori lui, la ragazza sapeva come fare.
Quando la lettera fu finita, Grigo cavò fuori una razione di pane e me la porse insieme con il coltellino. Era usanza, anzi legge non scritta, che in tutti i pagamenti a base di pane fosse uno dei contraenti a tagliare il pane e l’altro a scegliere, poiché così il tagliatore era indotto a fare porzioni il più possibile uguali. Mi stupii che Grigo già conoscesse la regola ma poi pensai che essa era forse in vigore anche fuori del Lager, nel mondo a me sconosciuto da cui Grigo proveniva. Tagliai e lui mi lodò cavallerescamente: che le due mezze razione fossero identiche era suo danno ma avevo tagliato bene, niente da dire.
Mi ringraziò e non lo rividi mai più. Non occorre aggiungere che nessuna delle lettere che scrivemmo quel giorno giunse mai a destinazione.
( Primo Levi )
per non dimenticare ....
giovedì 26 gennaio 2012
CAOS DENTRO: INVOLUZIONE INDUSTRIALE
Si è appena concluso un anno particolarmente difficile per i lavoratori italiani e per chi purtroppo è in cassa o addirittura disoccupato.
Solo nel 2011 in Italia sono fallite quasi 9000 imprese (all’incirca 24 ogni giorno) a causa di una crisi economica che non accenna a diminuire, alimentata da una gestione politica basata su tasse e totalmente priva di interventi atti a sostenere il lavoro, le imprese e di conseguenza le famiglie italiane.
Purtroppo investire sugli ammortizzatori sociali non è la soluzione, poiché rimanda solo il problema di qualche anno. Una volta esauritisi questi , infatti, il lavoratore si ritrova comunque senza un impiego e di conseguenza senza un reddito.
Molte aziende che sono riuscite a resistere in questi anni di recessione economica, ora stanno valutando la possibilità di dislocare la produzione all’estero in paesi (Cina, Turchia, India, Brasile, ecc…) in cui il costo del lavoro è molto inferiore rispetto all’Italia.
In questi paesi non sono presenti leggi adeguate sulla sicurezza, sull’inquinamento ma soprattutto vi è un inferiore pressione fiscale, che fa gola agli imprenditori di casa nostra.
Non è possibile che in Italia una azienda sia costretta a pagare fra contributi e tasse varie, 1400€ mensili circa per una lavoratore che, paradossalmente, percepisce al netto solo 800€ al mese…
E’ una vergogna!!!
Le aziende che invece scelgono di accettare l’ardua sfida di rimanere sul suolo Italiano si vedono costrette ad abbassare il costo del lavoro cercando follemente di battere la concorrenza cinese sulla quantità e sul costo, rinunciando alla qualità e ad uno sviluppo del prodotto MADE IN ITALY.
Ovviamente questo peso viene sobbarcato sulle spalle degli operai poiché l’innovazione costa e quindi si obbliga il lavoratore a produrre di più, non sostituendo macchinari ormai obsoleti con quelli di ultima generazione molto più efficienti, ma bensì costringendo il dipendente a lavorare di più grazie anche ad un uso improprio della cassa integrazione pretendendo che quest’ultimo, lavorando meno giorni, effettui la stessa produzione che svolgeva prima in una settimana piena. Come se non bastasse, vi è un forte attacco ai diritti che duramente sono stati conquistati con anni di lotte, mettendo timore ai lavoratori con la classica frase, oseremo dire alla Marchionne, di moda oggi nelle aziende “Se vi va bene è così altrimenti chiudo e vado all’estero”.
Con questo espediente la maggior parte dei lavoratori cedono al ricatto senza rendersi conto che in qualsiasi caso l’azienda ha già preso le sue decisioni e quindi, se ha deciso di andarsene, lo farà comunque. Oltre al danno la beffa.
Purtroppo queste situazioni sono sempre più frequenti nelle aziende Italiane a causa di un sindacato fortemente indebolito da lavoratori precari sempre più facilmente ricattabili, ma soprattutto da divisioni interne a livello nazionale e dallo scarso appoggio di lavoratori ormai stufi di vedere sindacalisti stile “Luca Nervi” che sfruttano il loro ruolo solo per saltare il lavoro con permessi sindacali e che si danno da fare solo quando i fatti li riguardano in prima persona.
L’unica speranza di ridare dignità ai lavoratori e alle aziende Italiane è rappresentata dai giovani che invece di lamentarsi di un sindacato e di una politica opportunista, si devono mettere in gioco in prima persona ricordandosi che se le cose non piacciono come sono le possiamo cambiare!
giovedì 19 gennaio 2012
CAOS DENTRO: I GIOVANI E L’ITALIA: PRENDERE O LASCIARE?
Giovani in fuga da un Paese maltrattato, che non gli piace, che non valorizza la persona e non dà futuro, e giovani che restano, che resistono, che non vogliono abbandonare, nonostante tutto, il Paese più bello e memorabile della storia dell’intera umanità.
La discussione di questa settimana di Caos Dentro si focalizza proprio su questa questione, una delle più sentite fra le nuove generazioni, che hanno una voglia matta di raccontare e gridare forte le proprie esperienze, le proprie testimonianze ma, soprattutto, i propri sentimenti e la propria sofferenza. Un argomento, sicuramente, che lascia sgomenti ma allo stesso tempo stupiti chi ascolta la nostra voce. Come sempre…buona discussione!giovedì 12 gennaio 2012
CAOS DENTRO: OMOSESSUALITA' MALATTIA? ORA BASTA!
“I gay sono come malati da curare, persone non normali, paragonabili alle persone disabili…”
Questa l’ultima scioccante dichiarazione di Francesco Bruno, psichiatra, criminologo e docente all’Università di Salerno e alla Sapienza di Roma che, come suo solito, è tornato ad offendere le persone omosessuali. Il medico sessantatreenne, ospite abituale di salotti televisivi per commentare casi di cronaca nera, è sceso in campo dalle pagine virtuali del blog Pontifex (ritrovo telematico di ultracattolici che ospita spesso dichiarazioni omofobiche nei confronti di gay, lesbiche e transgender) in difesa dell’ormai ex assessore alla Mobilità del Comune di Lecce Giuseppe Ripa, dimessosi dopo aver insultato il governatore della Puglia Nichi Vendola. Bruno, intervistato dal curatore del sito, afferma: “L'organizzazione mondiale della Sanità ha deciso che non si debba parlare di malattia, a proposito dell'omosessualità, e sappiamo con quali criteri ha scelto. Io rimango della mia idea e le denunce dei gay non mi fanno paura (…) Siamo nel campo, quando l’omosessualità non viene scelta volutamente, di anormalità funzionali essendo il sesso volto naturalmente alla procreazione. L'omosessuale nato lo è per un disturbo di personalità legato, probabilmente, ad una errata assimilazione dei ruoli dei genitori, o anche a cause organiche che sarebbe complicatissimo spiegare. Tuttavia, è nella stessa situazione, dal punto di vista concettuale, di chi è handicappato, sordo o cieco. Per queste categorie, con una certa ipocrisia si dice diversamente abili, non vedenti e simili. Il gay è diversamente orientato per la sessualità e quel diversamente la dice lunga sulla normalità".
Dichiarazioni, queste, che non andrebbero neanche commentate vista l’insensatezza delle parole e soprattutto il personaggio che le “profetizza”, ma è giusto replicare, anche perché di fronte all’ignoranza e l’intolleranza ultimamente si è taciuto troppo. E’ arrivato il momento di alzare la voce di fronte a questi beceri attacchi alla persona umana e ai suoi diritti, di qualsiasi forma essa sia. E’ deplorevole che, nel 2012, personaggi che occupano anche ruoli di rilievo nel clima intellettuale del nostro paese si permettano di riferire esternazioni simili, dimenticandosi la cosa più importante, e cioè quella di parlare di PERSONE.
Il principio fondante di una persona è quello di provare passioni, sentimenti, sensazioni…ma soprattutto amore, emozione che ci caratterizza come esseri umani. Privereste voi una persona del suo diritto d’amare? Provate solo per un minuto ad immaginare di essere ritenuti “anormali” perché amate la persona con cui condividete la vostra vita. Provate, se ci riuscite, a pensare (come succedeva fino a pochi anni fa anche in Europa) per un istante di essere arrestati, torturati o uccisi semplicemente perché amate una persona…
Se ci soffermiamo un momento su questo aspetto, ci rendiamo conto che parole come “anormalità”, “cause organiche”, “malattia”, se ne possono andare al diavolo!!
Personaggi come Francesco Bruno pensano, con la loro esaltazione e il loro irrefrenabile narcisismo, di indottrinarci con queste misere dichiarazioni…Sveglia! Il Medioevo è finito secoli fa…non vi crede più nessuno…potete solo sfruttare la situazione per farvi un po’ di pubblicità e vedere i vostri bei nomi stampati sui quotidiani, niente di più…
Forse, riprendendo la celebre frase di Giordano Bruno (paradossalmente porta il suo stesso cognome…) “tremate più voi nel pronunciare questa sentenza, che io nell’ascoltarla!”
L’omosessualità non è un peccato, il vero peccato è la stupidità…
Concludendo, vi lasciamo ad un video molto toccante di Roberto Benigni, che spiega questo delicato argomento attraverso le stanche ma sempre appassionate parole di Oscar Wilde.
giovedì 5 gennaio 2012
CAOS DENTRO: IO "GIOVANE" LAICO VORREI INCONTRARE UN CATTOLICO "ADULTO".
Giovane laico non tanto in senso anagrafico, ormai non più semmai maturo, ma nel senso di conquista recente.
Sì perchè non è semplice e facile come potrebbe sembrare dirsi e essere veramente laici, è una conquista lunga e sofferta e implica forse essere non più giovani di età, aver perso certi slanci passionali e acquisito la rigorosità e la coerenza che questo "habitus" comporta: laico è sinonimo di assenza di pregiudizi, ragionare laicamente significa non partire da presupposti aprioristici e non assumere posizioni immodificabili nel tempo e quindi rifuggere con forza ogni tipo di dogma.
Pertanto può benissimo non essere laico, e molto spesso non lo è, un ateo così come può essere sicuramente laico un credente e in particolare un cattolico.
Da qui il mio auspicio di poter incontrare più spesso, non è purtroppo facile oggigiorno, qualche cattolico "adulto" con cui incrociare molto laicamente le spade simboliche della dialettica e del confronto sui temi caldi che investono nel profondo la società italiana e il vivere in "comune", come quelli dell'inizio e del fine vita e il diritto ad una vita e a una morte sempre e comunque dignitosa.
Noi laici vediamo con molto favore l'impegno civile e politico dei cattolici, così come siamo favorevoli - proprio perché laici - allo spazio pubblico a disposizione della Chiesa come di qualsiasi altra associazione o individuo per diffondere le proprie idee.
La Chiesa predichi la sua fede. Offra la sua visione etica, censuri quanti a suo giudizio si rendano colpevoli di riprovevoli comportamenti. I cattolici "impegnati" tengano conto degli indirizzi dottrinali e dei valori predicati dalla Chiesa e cerchino anche di trasfonderli in politica nella misura giudicata opportuna ma senza mai dimenticare una cosa molto importante, che le leggi hanno valore "erga omnes" e non possono dunque obbligare i non cattolici ad obbedire a norme che riposano su dogmi non vincolanti per chi non li condivide.
Tutto questo è chiaro e accettato sia dalla Chiesa, sia dai cattolici "adulti", sia dai laici non credenti o di altre religioni. Esiste però un punto di scontro e lo pone la Chiesa quando parla di valori "non negoziabili".
Anche i laici hanno valori non negoziabili come per l'appunto la concezione della laicità dello Stato, affermata e garantita dalla nostra Costituzione repubblicana e democratica. Quindi che cosa si intende quando si parla di valori non negoziabili? Nessuno discute i valori del cattolicesimo ma quello che si deve chiarire è proprio il punto della negoziabilità.
Esiste sicuramente la coscienza individuale ma soprattutto ve n'è una anche collettiva: per noi laici è un valore egemone che rispetta tutti gli altri purché questi si esprimano senza mettere a rischio la laicità dello Stato e quindi senza imporre a nessuno valori agganciati al dogma, monopolio interpretativo della gerarchia cattolica.
Del resto affermazioni come quella recente del Papa in Germania quando ha detto che "Lutero aveva più fede in Dio di quanta ne abbiamo noi" o quella fatta più volte dal cardinale Carlo Maria Martini che ricordava quanto "Lutero è stato il più grande riformatore della Chiesa cristiana" costituiscono un riconoscimento implicito del relativismo sulle pretese della gerarchia di dettare norme non solo erga omnes ma neppure nei confronti degli stessi credenti.
Il cattolico adulto che vorrei incontrare è questa figura della modernità che recupera il ruolo fondante del laicato cattolico rispetto a quello importante ma sussidiario dell'ordine sacerdotale.
Io e lui saremmo senz'altro sulla stessa lunghezza d'onda, in qualche modo pure in sintonia ponendoci le stesse domande: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sembrano essere diventate un luogo comune queste domande e forse lo sono, ma continuano a costituire la base d'ogni filosofia e d'ogni conoscenza. Le nostre risposte spesso differirebbero ma talvolta potranno coincidere.
Entrambi cerchiamo per vie diverse il senso della vita.
Per me, laico, il senso della vita è nella possibilità di realizzare la persona umana al meglio, senza prevaricazione e senza essere avari di sé; come Eugenio Scalfari molto bene dice in un suo bellissimo libro, “sono gli unici due peccati che io riconosca per gravi e sarei disperato se sapessi di averli commessi”.
Per un cattolico la fede rappresenta il senso della propria vita.
Ma "non elimina il dubbio. Il dubbio tormenta spesso la mia fede. È un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l'essenza.", sempre con le parole del cardinal Martini.
Solo questo rovello, declinato in forme diverse, rappresenta il punto d'incontro tra laici di diversa estrazione, tra noi e i cattolici adulti.
E da quel punto potremmo affermare insieme molto laicamente che il vero peccato del mondo è l'ingiustizia, ogni forma di ingiustizia, dal quale tutti gli altri discendono.
Mario
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